Chiesa Prova

San Martino

di Paravanico

L'edificio di culto fu menzionato per la prima volta nel marzo del 1088 in un atto di donazione da parte dei coniugi Gezo ed Algusa e dei loro figli al monastero di Santo Stefano; altre testimonianze storiche del complesso risalgono alla visita apostolica di monsignor Francesco Bossi o Bossio nel 1582. Sicuramente la chiesa dell'XI secolo era collocata in una località più a monte dell'attuale ubicazione (loc. Casale). Nel 1337 la chiesa era già eretta in parrocchia (rettoria) e probabilmente era già stata traslata più a valle, nell'attuale sito. Da recenti rinvenimenti, si è riusciti a sapere che l'edificio sacro aveva le forme e le fattezze di un tempio romancio, con le coperture delle navate laterali sotto elevate rispetto a quella della navata centrale. Nel 1587, data riportata sul portale, la chiesa ebbe a subire una prima, consistente ristrutturazione (probabilmente a seguito delle prescrizioni emanate da monsignor Bossi). La facciata in stile barocco si presenta con semplici motivi del Cinquecento ed un piccolo portale in marmo raffigurante san Martino a cavallo nel celebre atto di dividere il proprio mantello per donarne la metà ad un povero. Un secondo restauro avvenne in seguito, nel 1743 (altra data riportata sul portale). Miracolosamente l'edificio riuscì ad uscire indenne dalla Guerra di successione austriaca, che devastò Genova e, soprattutto, il Genovesato. Una terza, consistente ristrutturazione avvenne nel 1849-1851, ad opera del sacerdote Giuseppe Boggiano, che procedette a far rifare l'altare maggiore in stile neo-classico, nonché a ridipingere e ripavimentare la chiesa secondo i gusti dell'epoca. Più recentemente (nel 1951) fu presentato un nuovo progetto di ristrutturazione della facciata ma, poiché avrebbe però stravolto l'originale architettura, i lavori si interruppero quasi subito, anche per la mancanza dei fondi necessari. I lavori ripresero quasi trent'anni dopo, intorno agli anni ottanta, recuperando l'antico sagrato, il piazzale, il muro di cinta, il campanile, la canonica e la chiesa stessa. L'interno della chiesa è diviso in tre navate con archi a tutto sesto e colonne del XVI secolo. Tra le numerose opere d'arte conservate è presente una tela raffigurante san Martino intento a tagliare il suo mantello, attribuita a Giovanni Battista Carlone; le altre opere pittoriche presenti sono attribuibili ai pittori Luca Cambiaso e Bernardo Strozzi.

STORIA

L'atto notarile più antico che nomina la chiesa è del marzo 1088. Da un atto del notaro Nicolo Cavo del 10 marzo 1596 sappiamo che il rettore della parrocchia aveva il titolo di "Vicarius Foraneus totius Vallis Pulcifere". Risulta già parrocchia nel 1337. Ebbe un primo ingrandimento probabilmente nel 1587; altro restauro nel 1743; un terzo nel 1851-52; la terza domenica di ottobre del 1852 la chiesa fu consacrata; il 18 settembre 1821 fu eretta in prevostura.

San Martino Di Tours

Martino nacque in Pannonia, l'odierna Ungheria, nel 316; era figlio di un ufficiale romano e fu educato nella città di Pavia, dove passò la sua infanzia fino all'arruolamento nella guardia imperiale all'età di quindici anni.  A scuola Martino prese i primi contatti con i cristiani e, all'insaputa dei genitori, si fece catecumeno e prese a frequentare con assiduità le assemblee cristiane. La sua umiltà e la sua carità hanno dato vita ad alcune leggende tra cui quella in cui Martino incontrò un povero al quale donò metà del suo mantello; oppure quella dell'attendente che Martino considerava come un fratello, tanto da tenergli puliti i calzari. Ottenuto dall'imperatore l'esonero dal servizio militare, Martino si recò a Poitiers presso il vescovo Sant'Ilario, che completò la sua istruzione religiosa, lo battezzò e lo ordinò sacerdote. Tornò in Pannonia dove convertì la madre, quindi combatté gli Ariani a Milano, ma venne cacciato. In seguito si ritirò in Liguria, infine di nuovo in patria. Amante della vita austera e del silenzio, eresse il monastero di Ligugè, il più antico d'Europa, e quello di Marmontier, tuttora esistente. Essendo vacante la diocesi di Tours, nel 372 venne consacrato vescovo per unanime consenso di popolo. Accettò la carica con grande riluttanza, ma si dedicò con zelo all'adempimento dei suoi doveri episcopali, continuando la sua vita ascetica di preghiere e rinunzie e portando nella sua nuova missione il rigore dei costumi monastici, sempre vicino alla gente, soprattutto ai contadini più poveri. Resse la diocesi per ben ventisette anni in mezzo a molti contrasti, anche da parte del suo stesso clero. Un certo prete Brizio arrivò persino a querelarlo; ma il vescovo lo perdonò dicendo: "Se Cristo sopportò Giuda perché io non dovrei sopportare Brizio?".  Stremato dalle fatiche e dalle penitenze, pregava il Signore dicendo: " Se sono ancora necessario non mi rifiuto di soffrire, altrimenti venga la morte." Morì a Candes e volle essere disteso sulla nuda terra, cosparso di cenere e cinto da un cilicio: era l'11 novembre del 397.  I suoi funerali furono celebrati alcuni giorni dopo per dare il tempo ai suoi monaci di arrivare: ne erano presenti circa duecento. Sepolto nella cattedrale di Tours, la sua fama si diffuse in tutta la Francia, dove è ancora invocato come primo patrono della nazione. La sua tomba è meta di continui pellegrinaggi da tutto il mondo. Nell'arte San Martino è raffigurato sul cavallo mentre taglia il suo mantello; in Francia, nelle chiese a lui dedicate, è rappresentato come vescovo che distribuisce elemosine ai poveri.

The national cuisine has been described as Pacific Rim, drawing inspiration from Europe, Asia and Polynesia.

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Feste

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Santa Croce

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Santa Croce in Capanne di Marcarolo

  • Orario messa

    Sabato ore 15:45

  • Titolo

    Esaltazione della Santa Croce

  • Feste

    Maria Regina (1^ Domenica di Luglio)
    Sant'Isidoro (ultima Domenica di Luglio)
    Santa Croce (secondo Sabato di Settembre)

Storia

La prima notizia di una chiesa a Marcarolo si legge in un atto notarile dell’8 maggio 1221; da altri documenti risulta intitolata a Maria SS.ma (S. Maria di Marcarolo). Era dipendente dalla Pieve di Ceranesi. Con l’andar del tempo diventò priorato dei Benedettini, come risulta nel Banco di S. Giorgio all’anno 1353.

Secondo il Remondini, fino al 1613 non vi è notizia di un "pubblica cappella" intitolata a Santa Croce; nemmeno nella Visita Apostolica di Monsignor Bossio nel 1582 viene citata. 

Nel 1619, l'Arcivescovo Domenico De Marini eresse la nuova Chiesa Parrocchiale, intitolata alla Esaltazione della Santa Croce, con il coro rivolto a Nord. 

Nella Visita Apostolica del 1650, l'Arcivescovo Cardinale Durazzo segnala, all'interno della Chiesa, la presenza di tre altari: il maggiore, uno dedicato al Rosario e uno a Sant'Antonio. Il campanile fu innalzato nel 1660.

Nel 1743 i parrocchiani, incoraggiati dal Rettore Angelo Maria Cassassa e da una donazione da parte della famiglia Spinola (ai quali, per riconoscenza, nel 1744 fu concesso di costruire alcune loro stanze sopra una delle due sacrestie e una tribuna nel presbiterio per assistere alla Messa da casa) ingrandirono la Chiesa.

La Chiesa fu consacrata dal Cardinale Giuseppe Siri il 31 maggio 1969, nel 350 anniversario della costituzione della Parrocchia.

Nel 2019 ci fu un restauro generale interno, in occasione del quattrocentesimo anniversario di costituzione della Parrocchia. I solenni festeggiamenti furono presieduti dall'Arcivescovo di Genova, Cardinale Angelo Bagnasco.


Il Rinvenimento della Santa Croce

Socrate Scolastico (nato nel 380 circa) fornisce un resoconto del ritrovamento nella sua Storia ecclesiastica. Narra come Elena, madre di Costantino I, avesse fatto distruggere il tempio pagano posto sopra al Sepolcro e, riportatolo alla luce, vi ritrovò tre croci e il Titulus crucis (il cartello posto sulla croce di Gesù).

Secondo il racconto di Socrate, Macario, vescovo di Gerusalemme, fece porre le tre croci una per volta sopra il corpo di una donna gravemente malata. La donna, miracolosamente, guarì perfettamente al tocco della terza croce, che venne identificata con l'autentica croce di Cristo.

Socrate sostiene che fossero stati ritrovati anche i chiodi della crocefissione e che Elena li avesse mandati a Costantinopoli, dove furono incorporati nell'elmo dell'imperatore e uno fu trasformato nel morso del proprio cavallo (questo morso sarebbe quello conservato prima nell'antica Basilica di Santa Tecla e, dopo la traslazione del 1548 voluta dal Vescovo Carlo da Forlì, nel Duomo di Milano, a decine di metri d'altezza dal suolo). Secondo una tradizione un altro chiodo dovrebbe circondare l'interno della corona ferrea, oggi conservata nel Duomo di Monza.

La festività ricorre il 14 settembre, in ricordo del ritrovamento della vera croce di Gesù da parte di sant'Elena, avvenuto nel 327.


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Santa Maria Assunta

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Santa Maria Assunta di Ceranesi

  • Orario messa


    Domenica

    ore 11.00
    ore 16.30 (ora solare)
    ore 18.00 (ora legale)

    Martedì, Giovedì e Venerdì
    ore 8.00

  • Titolo

    Santa Maria Assunta

  • Feste

    Santi Gioacchino e Anna (26 Luglio)
    Santa Marta (29 Luglio)
    Assunzione (15 Agosto)
    N.S. dell'Orto (8 Settembre)

Storia

La più antica memoria scritta di questa Chiesa pievana si trova nel "decreto de Guardia Civitatis" del 1128, ove tre pievi sono indicate: "homines de Langasco et de Celanexi et de S. Cipriano per unamquamque plebem debent dare..." e già la troviamo dedicata all'Assunta. Insigni studiosi di storia, come Lazzaro De Simoni, ne collocano la data di fondazione addirittura intorno al V secolo, proprio all'epoca della formazione delle prime Pievi.


La chiesa dell'Assunta impose da subito la sua autoritaria presenza accentrando su di sé l'attenzione della gente dei dintorni. Una prova indiretta ma eloquente circa tale stato di cose, è quella che parla dell'esistenza di un valido campanile fin dal tempo più lontano, negli anni a cavallo fra il XII e il XIII secolo; evidentemente il richiamo di quella sede religiosa era rivolto a molti fedeli sparsi su una gran fetta di territorio. Il primo ecclesiastico che troviamo nominato è l'Arciprete Girardo, menzionato su una lapide murata alla base del campanile, recante la data 1209. In atti del notaio Pietro Ruffo, del 21 luglio 1252, troviamo citato come teste il Sac. Vivaldo, Arciprete di Ceranesi.


Circa la forma fisica della chiesa pievana dobbiamo dire che anch'essa ricalcava pienamente le sue origini remote: limitata nelle dimensioni, era a forma di quadrilatero in puro stile romanico. Parti di questa architettura sono state riportate alle origini ed evidenziate durante i restauri del 1938. 
La prima grande opera di rinnovamento si ebbe alla fine del XVI secolo, epoca in cui la chiesa venne portata alle dimensioni attuali. Ad occuparsi dell'andamento finanziario di questo luogo di culto fu soprattutto una famiglia benestante, quella dei Ghizolfi, che abitava nelle vicinanze della stessa chiesa e, come affermano le testimonianze del tempo, "...arrivavano alla Messa a cavallo e con le collane d'oro al collo...". Una targa murata sulla parete esterna della chiesa rimase a lungo a testimoniare la generosità di quella famiglia, ma poi, per qualche oscuro motivo, forse per contrasti interni, venne tolta.Per poter realizzare questo rinnovamento ed ingrandimento la chiesa venne capovolta, ricavando in quella che era l'abside maggiore l'ingresso del nuovo fabbricato. Ancora oggi la prima cosa che cattura la nostra curiosità ed attenzione sono le tre absidi che si trovano in facciata, in stile romanico, totalmente diverse dallo stile della nuova chiesa. Anche presso la porta laterale, durante alcuni restauri, sono emerse pietre lavorate ed archetti. 
Nel 1693 venne restaurato e rinforzato il campanile, come attesta ancora una lapide murata alla base dello stesso; esso conserva però, ancora ai nostri giorni, una vertiginosa inclinazione.
La guerra austriaca del 1747 passò pesantemente anche dalla chiesa dell'Assunta, seminando morte e distruzione; la chiesa fu saccheggiata, privata di molti arredi, di alcune tele preziose del Canepa e del Dellepiane, delle campane.
La ripresa avvenne poi con estrema difficoltà, con sacrificio; la chiesa tornò agli antichi splendori intorno al 1770. Con l'espandersi della popolazione si resero necessari ulteriori lavori; sulla fine del 1700 si aggiunsero le quattro cappelle laterali, si portò il campanile all'attuale altezza di 36 metri; nel 1837 si aggiunse una nuova sacrestia. Sulla fine del 1800 l'interno fu affrescato ed ornato dai pittori genovesi Scialleto e Berretta.
Nel 1889 è stato rifatto completamente il pavimento della Chiesa in marmo bardiglio e carrara, mentre quello antico del presbiterio, di pregiati marmi policromi, è ancora perfettamente conservato. 
Nel 2006, a causa di preoccupanti cedimenti del pavimento, dopo indagini e verifiche, sono venute alla luce le antiche cripte funerarie, con volte di pietra, di epoca seicentesca, poste al di sotto di esso.

Un importante lavoro è stato eseguito negli anni 1937 - 38, al tempo dell'Arciprete Dionisio Giovanni Porcile, consistito in un restauro generale e nell'innalzamento dell'attuale facciata ad opera dell'ing. Ugo Bossi.

Tra il 2006 e il 2009 la Chiesa è stata interessata da un restauro generale interno ed esterno, che ha coinvolto un gran numero di volontari. 

Nel 2011 è stato inaugurato il nuovo organo a canne.

Dal punto di vista artistico si segnalano soprattutto:

  • le tre absidi medioevali in facciata
  • il bellissimo altar maggiore, in marmo intarsiato, di epoca seicentesca (diaspro di Sicilia, nero del Belgio, broccatello di Spagna, verde di Polcevera, rosso di Francia, giallo di Siena) e il pavimento del presbiterio
  • il pulpito marmoreo, dono degli emigranti di Ceranesi in America, della fine dell'800
  • l'altorilievo in marmo, rappresentante la crocifissione, datato intorno al 1580, esposto recentemente alla mostra genovese "la Sacra Selva", al museo di S. Agostino
  • una grande statua in marmo della Madonna del Rosario
  • la quadreria: sull'altar maggiore l'Assunta, di Giovanni Battista Canepa, datata 1755; S. Antonio di Padova del grande pittore del ‘700 genovese Domenico Piola; il crocifisso e le anime purganti, di Francesco Campora del 1757; altre tele
  • degni di nota anche gli arredi dell'Altare, gli apparati per le feste, i paramenti liturgici, il prezioso baldacchino per le processioni, l'argenteria liturgica

Per ulteriori notizie:
- Archivio storico parrocchiale dell'Arcipretura di Ceranesi
- P. Stringa, "La Valpolcevera", Genova 1980
- G. Cipollina, "Regesti di Val Polcevera", vol. I e II, Genova, 1932
- M. e A. Remondini, "Parrocchie dell'Archidiocesi di Genova", vol. XVII, Genova 1888
- M. Lamponi, "Paesi di Polcevera", Genova, 1980
- L. Alfonso, "Schede storiche dell'annuario dell'Arcidiocesi di Genova", Genova 1994
- D. Testino, M. Patrone, M. Rebora, "La Pieve di Ceranesi - Cronaca di un grande restauro", Genova 2009
- Tesi di laurea in Storia dell'Arte Medievale di Camilla Pasqui: "La Pieve di S. Maria di Ceranesi nel medioevo", Università degli studi di Genova, Anno Accademico 1994/95, relatore Prof. Colette Bozzo Dufour


Assunzione della Beata Vergine Maria

La “dormitio Virginis” e l'assunzione, in Oriente e in Occidente, sono fra le più antiche feste mariane. Fu papa Pio XII il 1° novembre del 1950, Anno Santo, a proclamare solennemente per la Chiesa cattolica  come dogma di fede l’Assunzione della Vergine Maria al cielo con la Costituzione apostolica Munificentissimus Deus:  « Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo. Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica».
La Chiesa ortodossa e la Chiesa apostolica armena celebrano il 15 agosto la festa della Dormizione di Maria.

Cosa si festeggia in questa solennità?
L'Immacolata Vergine la quale, preservata immune da ogni colpa originale, finito il corso della sua vita, fu assunta, cioè accolta, alla celeste gloria in anima e corpo e dal Signore esaltata quale regina dell'universo, perché fosse più pienamente conforme al Figlio suo, Signore dei dominanti e vincitore del peccato e della morte. (Conc. Vat. II, Lumen gentium, 59). La Vergine Assunta, recita il Messale romano, è primizia della Chiesa celeste e segno di consolazione e di sicura speranza per la chiesa pellegrina. Questo perché l'Assunzione di Maria è un'anticipazione della resurrezione della carne, che per tutti gli altri uomini avverrà soltanto alla fine dei tempi, con il Giudizio universale. È  una solennità che, corrispondendo al natalis (morte) degli altri santi, è considerata la festa principale della Vergine.
Il 15 agosto ricorda con probabilità la dedicazione di una grande chiesa a Maria in Gerusalemme.

Qual è il significato teologico?
Il Dottore della Chiesa san Giovanni Damasceno (676 ca.- 749) scriverà: «Era conveniente che colei che nel parto aveva conservato integra la sua verginità conservasse integro da corruzione il suo corpo dopo la morte. Era conveniente che colei che aveva portato nel seno il Creatore fatto bambino abitasse nella dimora divina. Era conveniente che la Sposa di Dio entrasse nella casa celeste. Era conveniente che colei che aveva visto il proprio figlio sulla Croce, ricevendo nel corpo il dolore che le era stato risparmiato nel parto, lo contemplasse seduto alla destra del Padre. Era conveniente che la Madre di Dio possedesse ciò che le era dovuto a motivo di suo figlio e che fosse onorata da tutte le creature quale Madre e schiava di Dio». La Madre di Dio, che era stata risparmiata dalla corruzione del  peccato originale, fu risparmiata dalla corruzione del suo corpo immacolato, Colei che aveva ospitato il Verbo doveva entrare nel Regno dei Cieli con il suo corpo glorioso.


Le Cripte

Le cripte della Chiesa di Ceranesi sono un antico cimitero. Non si hanno notizie circa l’epoca in cui vennero costruite: si può solo presumere con un alto grado di probabilità che esse non esistessero prima dei grandi lavori di ribaltamento e ampliamento della chiesa, a cavallo fra Cinquecento e Seicento. Dai documenti rinvenuti nell’Archivio Parrocchiale, tuttavia, si può tentare una ricostruzione un po’ più precisa.

Il registro più antico contenente atti di morte, conservato nell’Archivio Parrocchiale, data a partire dal 1593[1]. Le annotazioni di morte risalenti a quell’epoca e fino ai primi decenni del secolo XVII sono molto essenziali: del defunto vengono indicati la data del decesso, il nome e il cognome, la paternità e, per le donne sposate, il nome del marito (es: + die 23 Septembris 1630 Maria filia Jacobi Piccaluga obijt; ovvero “il 23 settembre 1630 Maria, figlia di Giacomo Piccaluga, morì”). In questi atti non si fa menzione, però, del luogo di sepoltura. Con l’arrivo del nuovo arciprete Giovanni Battista de Negri, intorno al 1650, a questi scarni dati venne aggiunta una nota importante, vale a dire se il defunto, prima di morire, avesse ricevuto o meno i Sacramenti. Dal 1654 lo stesso arciprete de Negri iniziò a indicare anche il luogo della sepoltura, che risulta sempre la chiesa. Diverse sono le formule adoperate: “…in nostra Parochia Sancte Marie Ceranesi sepultus est”, “…in nostra parochiali ecclesia Sancte Marie Ceranesi sepultus est” e talvolta l’antichissimo titolo “…in nostra archipresbyterali ecclesia Sancte Marie Ceranesi…”. Parrebbe dunque che, almeno dal 1654, le sepolture avessero luogo in chiesa, nelle cripte oggi ritrovate.

Il documento più antico che faccia esplicita menzione dei sepolcri sotterranei risale però solo all’11 gennaio 1735, quando i Massari della chiesa “essendo rovinato il volto [ossia la volta] d’una sepoltura insieme col muro che al didentro il sostentava ... e non potendosi rifare, se prima non si levino i cadaveri”[2] chiedono alla curia di Genova l’autorizzazione (poi concessa) a rimuovere i resti dei defunti per procedere alla ristrutturazione. Tale circostanza ci consente di dedurre che le cripte dovessero essere in funzione già da diverso tempo. Un atto di morte redatto circa un mese dopo (18 febbraio 1735) specifica in margine che la defunta Maria Maddalena Parodi “in recenti sepulcro restaurato prima fuit universe familie gentium dicato”[3]: la sepoltura restaurata sembrerebbe quindi quella destinata alla comunità.

Una luce più chiara sul numero e sulla diversa funzione delle cripte viene gettata da due testimonianze che vedono protagonista, a distanza di 17 anni, l’arciprete Lorenzo Parodi. Si tratta, in entrambi i casi, di relazioni redatte in occasione di una visita pastorale: quella dell’Arcivescovo di Genova Saporiti (14 maggio 1754) ci informa che “quattuor extant defosse in dicta ecclesia sepulture quarum due particularium hoc est de familia Pittaluga et Parodi, et alia due communes in quibus promiscue[4]”; la seconda (Arcivescovo Lercari, agosto 1771) riferisce che “Vi sono n. 5 Sepolture; una per li RR. Sacerdoti, due della Communità, e due di Famiglie particolari cioè Parodi e Pittaluga senza distinzione di maschi e di femine ne di fanciulli”.

Confrontando tali relazioni si può ragionevolmente affermare che la cripta dei sacerdoti, in origine non prevista, sia stata costruita in un secondo momento proprio dall’arciprete Lorenzo Parodi. Anzi, pare che egli sia stato il primo parroco ad esservi sepolto, come si deduce attraverso il confronto tra l’atto di morte dell’arciprete Giovanni Battista Parodi (1 aprile 1750), suo zio e predecessore, e quello dello stesso Lorenzo (27 maggio 1793): nel primo si legge genericamente “sepultus in hac ecclesia”; nel secondo si specifica “sepultus in sepulcro sacerdotum”[5].

Il numero delle cripte è destinato ad aumentare nuovamente. Ecco quanto annota 50 anni dopo l’arciprete Francesco Levrero nella sua relazione per la visita pastorale dell’arcivescovo Lambruschini (3 ottobre 1821)[6]: “Sette sono le sepolture in detta chiesa, cioè una per i RR. Sacerdoti, la 2 per li uomini, la 3 per le Donne, la 4 per i Bambini, e trè altre pretendosi particolari senza esservi alcun documento né Libri, cioè una da detta Famiglia Pittaluga, e le altre due da Parodi, e Parodi di diverse famiglie”.

Emergono importanti novità: sono state aggiunte la cripta dei Bambini e quella di un’altra famiglia Parodi; gli uomini e le donne vengono seppelliti separatamente, a differenza di quanto avveniva in precedenza; non risulta (all’arciprete Levrero come a noi oggi) alcun atto ufficiale che certifichi l’effettiva proprietà delle tombe di famiglia.

La situazione descritta da don Levrero non subì ulteriori mutamenti, come attesta la descrizione fornita dall’arciprete Francesco Olcese nel 1889[7], che aggiunge altresì importanti dettagli: “Sotto la balaustra dell’Altar Maggiore, nel mezzo, stanno le ceneri delli Arcipreti Defunti. Di fianco a questo sepolcro, a sinistra mirando l’Altar Maggiore v’è la Tomba dei Pittaluga, olim di Piancapriolo [8]. Dalla medesima parte, presso il pulpito v’è Sepultura Virorum [“degli Uomini”]; dalla parte opposta la Mulierum [“delle Donne”]. Nel mezzo della chiesa, un po’ più sotto la metà, v’è probabilmente il Sepulcro dei Valliscioni (Valligiani?) [9]. In fondo, anche nel mezzo, circa a 3 metri dalla Porta Maggiore il Sepolcro degli Innocenti [10] (talium est enim regnum celorum [11]). In ultimo dalla parte del campanile, presso al confessionale che mira la porta laterale d’ingresso v’è il Sepolcro di Lorenzo Pallodio… ma di quali Parodi? Tutte queste sepolture sono tutte in parte piene di ossa, specie la Viror., Mulier., Pittal., Pallodi. Ben finita con scala materiale è la Archipresbyt. e l’altra dei Vallixioni dove tutti i morti si vede eran deposti con cassa[12]”.
 
Le cripte, nella loro configurazione definitiva, consistevano dunque in sette sale indipendenti, delimitate da pareti in pietra e volta a botte (parte in pietra e parte in laterizio). Ognuna di esse era accessibile esclusivamente attraverso un “chiusino”, posto sul pavimento della chiesa, che veniva aperto unicamente per procedere all’operazione di sepoltura. I chiusini, di forma quadrata, erano costituiti da due lastre sovrapposte, quella inferiore di ardesia o pietra, e quella superiore di marmo, conforme al pavimento; tra le due lastre, un interstizio di parecchi centimetri, riempito di sabbia o terra, fungeva da cuscinetto per isolare la cripta dalla chiesa. I corpi venivano deposti nella cripta dopo le esequie. La divisione dei defunti avveniva per sesso, età e censo.

Il 21 marzo 1804, il Codice Civile napoleonico (emanato in Francia ma in séguito applicato anche in Italia) vietò la sepoltura all’interno delle chiese e nei centri abitati, favorendo la nascita dei moderni cimiteri (Editto di Saint-Cloud). Tuttavia, dagli atti di morte di Ceranesi, risulta che l’ultimo defunto ad essere sepolto “in hac ecclesia” fu Bartolomeo Risso, il 21 Agosto 1835: qui le leggi napoleoniche trovarono quindi piena applicazione solo trent’anni dopo la loro emanazione, quando fu ultimato, su terreno di proprietà della chiesa, l’attuale cimitero. L’atto di morte successivo, infatti, indica che il 6 settembre 1835 “Catharina Grondona ... annorum 12 ... prima in Cemeterio huius Parochie sepulta est”[13]. Il cimitero conserva a tutt’oggi diverse lapidi antiche, tra cui quella di “Maria, vedova di Francesco Parodi”, morta nel 1837, e quella di “Maria Rosa Molinari”, morta nel 1840, collocate tra le cappelle private dei Pittaluga e dei Roncallo.

Nel 1889 fu decisa la realizzazione di un nuovo pavimento della chiesa. Da oltre cinquant’anni le cripte erano ormai cadute in disuso: in quell’occasione, forse per dare una miglior continuità al disegno creato con i marmi bianchi e bardiglio, forse per proteggere meglio la chiesa da eventuali fuoriuscite di esalazioni, i chiusini di accesso vennero rimossi e le aperture sigillate. Nel quaderno dei lavori compilato dall’arciprete Francesco Olcese si legge: “10 luglio 1889. Funnz. pro sepultis in Ecclesia: fatto con ceri sopra sepolcri tutti aperti”: dopo aver celebrato una Messa in suffragio di tutti i defunti ospitati nelle cripte, si procedette a chiudere le botole e a livellare il fondo per la posa del pavimento. Si tratta dello stesso pavimento sopravvissuto fino ad oggi, o meglio fino all’inizio della grande opera di restauro cominciata nel 2006.

Nel corso dei lavori di consolidamento e risanamento delle murature e dei pilastri della chiesa, si stabilisce di trasportare nel vicino cimitero le spoglie mortali delle numerosissime persone sepolte nelle cripte, con il duplice scopo di realizzare le ristrutturazioni nel pieno rispetto dei defunti e, nel contempo, di recuperare e valorizzare questi ambienti sotterranei ricchi di suggestione. L’Amministrazione Comunale mette a disposizione un appezzamento di terreno nella parte nuova del cimitero. Per il trasferimento delle ossa (una massa impressionante), sono necessari quindici carichi di trattore e il lavoro incessante di sette volontari: attraverso un calcolo approssimativo, ma piuttosto verisimile, effettuato consultando i registri parrocchiali, è stato possibile stimare la presenza di oltre duemila salme. Viene realizzata una fossa comune, denominata “Tomba degli Avi”, ornata di una croce e di una targa a ricordo dei nostri antenati scomparsi tra il 1654 e il 1834.
Dopo aver rimosso il pavimento in marmo della chiesa, messe in sicurezza le volte delle cripte, ricostruita la soletta, i volontari si dedicano alla ristrutturazione degli antichi sepolcri.

Vengono aperti piccoli varchi nei muri divisori per consentire il passaggio da una stanza all’altra; viene eretto un nuovo arco di mattoni in luogo della tramezza che separava la sala degli Uomini da quella delle Donne; una nuova, comoda scala scende nella sala della famiglia Pittaluga e da essa consente l’accesso a tutti gli ambienti; le pareti e le volte vengono lavate con idropulitrice e disinfettate con appositi prodotti; le pietre “spazzolate” ad una ad una e stuccate con malta cementizia; lo stesso avviene per le scale che consentivano l’accesso alla sala degli Arcipreti e a quella dei Valliscioni: esse, infatti, anche se inutilizzabili, sono conservate a testimonianza della loro funzione originaria.
Il pavimento primitivo, in terra battuta, rivestito da una soletta in cemento armato, viene piastrellato con mattonelle in cotto artigianale toscano, posizionate secondo diverse tipologie di disegno.

Merita una menzione particolare la Cripta degli Arcipreti. Molto piccola, chiusa da un cancello in ferro battuto, ospita oggi un piccolo altare in mattoni, sul quale è posto un Crocifisso. Sotto il pavimento, una cassetta di zinco contiene i resti di almeno quattro degli Arcipreti che trovarono sepoltura nella Cripta: infatti, a differenza degli altri defunti, si è scelto di lasciare le spoglie dei sacerdoti nella loro collocazione originaria. Si tratta di:
- don Lorenzo Parodi (nato a Ceranesi, ca. 1709; arciprete di Ceranesi 1743-1793; morto il 14 settembre 1793, all’età di 84 anni);
- don Francesco Levreri (nato a San Biagio, ca. 1759; arciprete di Ceranesi 1793-1835; morto il 24 dicembre 1835, all’età di 76 anni);
- don Francesco Toso (nato a Genova, ca. 1804; arciprete di Ceranesi 1836-1843; morto il 9 aprile 1843, all’età di 39 anni);
- don Pietro Oggiero (nato a Genova, ca. 1814; arciprete di Ceranesi 1849-1852; morto il 26 marzo 1852, all’età di 38 anni).
In una nicchia nella parete destra, ricavata nel corso dei lavori, è visibile una piccolissima parte delle ossa rinvenute nelle cripte: esse attendono, insieme agli Arcipreti e a tutti i defunti, la Risurrezione finale.


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San Martino di Paravanico

  • Orario messa


    Sabato

    ore 17.00

  • Titolo

    San Martino di Tours

  • Feste

    Cuore Immacolato di Maria (4a Domenica di Agosto)
    San Martino di Tours (2o Sabato di Novembre)

Storia

L'edificio di culto fu menzionato per la prima volta nel marzo del 1088 in un atto di donazione da parte dei coniugi Gezo ed Algusa e dei loro figli al monastero di Santo Stefano; altre testimonianze storiche del complesso risalgono alla visita apostolica di monsignor Francesco Bossi o Bossio nel 1582. Sicuramente la chiesa dell'XI secolo era collocata in una località più a monte dell'attuale ubicazione (loc. Casale).

Nel 1337 la chiesa era già eretta in parrocchia (rettoria) e probabilmente era già stata traslata più a valle, nell'attuale sito. Da recenti rinvenimenti, si è riusciti a sapere che l'edificio sacro aveva le forme e le fattezze di un tempio romancio, con le coperture delle navate laterali sotto elevate rispetto a quella della navata centrale.

Nel 1587, data riportata sul portale, la chiesa ebbe a subire una prima, consistente ristrutturazione (probabilmente a seguito delle prescrizioni emanate da monsignor Bossi). La facciata in stile barocco si presenta con semplici motivi del Cinquecento ed un piccolo portale in marmo raffigurante san Martino a cavallo nel celebre atto di dividere il proprio mantello per donarne la metà ad un povero.

Un secondo restauro avvenne in seguito, nel 1743 (altra data riportata sul portale). Miracolosamente l'edificio riuscì ad uscire indenne dalla Guerra di successione austriaca, che devastò Genova e, soprattutto, il Genovesato.

Nel 1821 fu eretta in prevostura.

Una terza, consistente ristrutturazione avvenne nel 1849-1851, ad opera del sacerdote Giuseppe Boggiano, che procedette a far rifare l'altare maggiore in stile neo-classico, nonché a ridipingere e ripavimentare la chiesa secondo i gusti dell'epoca.

Nel 1852 la Chiesa fu consacrata.

Più recentemente (nel 1951) fu presentato un nuovo progetto di ristrutturazione della facciata ma, poiché avrebbe però stravolto l'originale architettura, i lavori si interruppero quasi subito, anche per la mancanza dei fondi necessari. I lavori ripresero quasi trent'anni dopo, intorno agli anni ottanta, recuperando l'antico sagrato, il piazzale, il muro di cinta, il campanile, la canonica e la chiesa stessa. L'interno della chiesa è diviso in tre navate con archi a tutto sesto e colonne del XVI secolo. Tra le numerose opere d'arte conservate è presente una tela raffigurante san Martino intento a tagliare il suo mantello, attribuita a Giovanni Battista Carlone; le altre opere pittoriche presenti sono attribuibili al pittore Bernardo Strozzi e ad altri insigni Artisti genovesi.

Tra il 2010 e il 2015 la Chiesa fu interessata da un generale restauro interno ed esterno, comprendenti i tetti, le facciate, le decorazioni interne, i quadri, l'organo. I lavori furono inaugurati dall'Arcivescovo di Genova, Cardinale Angelo Bagnasco.


San Martino

Martino nacque in Pannonia, l'odierna Ungheria, nel 316; era figlio di un ufficiale romano e fu educato nella città di Pavia, dove passò la sua infanzia fino all'arruolamento nella guardia imperiale all'età di quindici anni. A scuola Martino prese i primi contatti con i cristiani e, all'insaputa dei genitori, si fece catecumeno e prese a frequentare con assiduità le assemblee cristiane. La sua umiltà e la sua carità hanno dato vita ad alcune leggende tra cui quella in cui Martino incontrò un povero al quale donò metà del suo mantello; oppure quella dell'attendente che Martino considerava come un fratello, tanto da tenergli puliti i calzari.

Ottenuto dall'imperatore l'esonero dal servizio militare, Martino si recò a Poitiers presso il vescovo Sant'Ilario, che completò la sua istruzione religiosa, lo battezzò e lo ordinò sacerdote. Tornò in Pannonia dove convertì la madre, quindi combatté gli Ariani a Milano, ma venne cacciato. In seguito si ritirò in Liguria, infine di nuovo in patria. Amante della vita austera e del silenzio, eresse il monastero di Ligugè, il più antico d'Europa, e quello di Marmontier, tuttora esistente. Essendo vacante la diocesi di Tours, nel 372 venne consacrato vescovo per unanime consenso di popolo.

Accettò la carica con grande riluttanza, ma si dedicò con zelo all'adempimento dei suoi doveri episcopali, continuando la sua vita ascetica di preghiere e rinunzie e portando nella sua nuova missione il rigore dei costumi monastici, sempre vicino alla gente, soprattutto ai contadini più poveri. Resse la diocesi per ben ventisette anni in mezzo a molti contrasti, anche da parte del suo stesso clero. Un certo prete Brizio arrivò persino a querelarlo; ma il vescovo lo perdonò dicendo: "Se Cristo sopportò Giuda perché io non dovrei sopportare Brizio?". Stremato dalle fatiche e dalle penitenze, pregava il Signore dicendo: " Se sono ancora necessario non mi rifiuto di soffrire, altrimenti venga la morte."

Morì a Candes e volle essere disteso sulla nuda terra, cosparso di cenere e cinto da un cilicio: era l'11 novembre del 397.  I suoi funerali furono celebrati alcuni giorni dopo per dare il tempo ai suoi monaci di arrivare: ne erano presenti circa duecento. Sepolto nella cattedrale di Tours, la sua fama si diffuse in tutta la Francia, dove è ancora invocato come primo patrono della nazione. La sua tomba è meta di continui pellegrinaggi da tutto il mondo. Nell'arte San Martino è raffigurato sul cavallo mentre taglia il suo mantello; in Francia, nelle chiese a lui dedicate, è rappresentato come vescovo che distribuisce elemosine ai poveri.


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San Lorenzo di Torbi

  • Orario messa


    Sabato
    ore 18:00

  • Titolo

    San Lorenzo Martire

  • Feste

    N.S. della Guardia a Rocca Maya (2 Giugno)
    Maria Regina (ultima Domenica di Giugno)
    San Lorenzo (10 Agosto)
    San Nicola (1Domenica di Dicembre)

Storia

Nel 1311 alcuni documenti testimoniano la presenza di un edificio religioso a Torbi.

Sull'altare maggiore, di marmo, è presente una pala di Bernardo Castello raffigurante il Martirio di San Lorenzo.

Nel 1387 perde la cura d'anime. Unita a san Martino di Paravanico il 22 marzo 1415, rimase in tale situazione fino all'8 aprile 1600, quando l'Arcivescovo Matteo Rivarola la eresse in parrocchia indipendente, affidandola il 28 aprile al prete Andrea Ferrando. Da una lettera di questo don Ferrando al senato di Genova in data 27 giugno 1625 siamo informati che tutto il territorio della Pieve di Ceranesi, del quale Torbi faceva parte, ebbe a subire gravissimi danni dalle soldatesche gallo-sarde. Gli storici F.lli Remondini accennano a due ricostruzioni della chiesa, una nel 1311 e l'altra attorno al 1600, ad una navata con cinque altari.

Un fulmine nel 1879 danneggiò gravenente il campanile, che fu ricostruito nel 1883. La planimetria della chiesa si presenta con una lunghezza complessiva di ventuno metri e una larghezza di otto metri e mezzo; sono presenti quattro altari in cotto dedicati a sant' Agnese (già intitolato a san Matteo e a san Nicola di Bari) e alla Madonna del Rosario dove in quest'ultimo è conservata la statua in legno della Vergine Maria. Gli altri due altari sono intitolati a san Isidoro e san Giovanni Nepomuceno (già dedicato al Santissimo Crocifisso) e l'altro a san Giuseppe ed ai martiri Fermo e Rustico. Sull'altare maggiore, di marmo, è presente una pala di Bernardo Castello raffigurante il Martirio di San Lorenzo.

Nel 1940 la chiesa venne interamente affrescata dal pittore Luigi Gambini e tre anni dopo venne rifatto il pavimento.


San Lorenzo

Il diacono e martire San Lorenzo ha assunto nel corso dei secoli un fama e una devozione veramente cattolica, universale, e ha saputo incarnare un modello concreto di servizio sena compromessi, tale ad essere additato come paradigmatico della diaconia in Cristo. Secondo un’antica “passione”, raccolta da sant’Ambrogio, San Lorenzo fu bruciato sopra una graticola: un supplizio che ispirerà opere d’arte, testi di pietà e detti popolari per secoli. Al principio dell'agosto 258 l'imperatore Valeriano aveva emanato un editto, secondo il quale tutti i vescovi, i presbiteri e i diaconi dovevano essere messi a morte. L'editto fu eseguito immediatamente a Roma, al tempo in cui Daciano era prefetto dell'Urbe. Sorpreso mentre celebrava l'eucaristia nelle catacombe di Pretestato, papa Sisto II fu ucciso il 6 agosto insieme a quattro dei suoi diaconi, tra i quali Innocenzo; quattro giorni dopo il 10 agosto fu la volta di Lorenzo, che aveva 33 anni. 

La sua vita come diaconato perenne
Lorenzo nacque a Osca (Huesca), città della Spagna, nella prima metà del III secolo. Venuto a Roma, centro della cristianità, si distinse per la sua pietà, carità verso i poveri e l’integrità di costumi. Grazie alle sue doti, Papa Sisto II lo nominò Diacono della Chiesa, meglio capo dei diaconi. Doveva sovrintendere all’amministrazione dei beni, accettare le offerte e custodirle, provvedere ai bisognosi, agli orfani e alle vedove. 
Per queste mansioni Lorenzo fu uno dei personaggi più noti della prima cristianità di Roma ed uno dei martiri più venerati, tanto che la sua memoria fu ricordata da molte chiese e cappelle costruite in suo onore nel corso dei secoli. Lorenzo fu catturato dai soldati dell’Imperatore Valeriano il 6 agosto del 258 nelle catacombe di San Callisto assieme al Papa Sisto II ed altri diaconi. Mentre il Pontefice e gli altri diaconi subirono subito il martirio, Lorenzo fu risparmiato per farsi consegnare i tesori della chiesa. 
Si narra che all’Imperatore Valeriano, che gli imponeva la consegna dei tesori della Chiesa, Lorenzo abbia portato davanti numerosi poveri ed ammalati ed abbia detto “Ecco i tesori della chiesa”. In seguito Lorenzo fu dato in custodia al centurione Ippolito, che lo rinchiuse in un sotterraneo del suo palazzo; in questo luogo buio, umido e angusto si trovava imprigionato anche un certo Lucillo, privo di vista. Lorenzo confortò il compagno di prigionia, lo incoraggio, lo catechizzò alla dottrina di Cristo e, servendosi di una polla d’acqua che sgorgava dal suolo, lo battezzò. Dopo il Battesimo Lucillo riebbe la vista. Il centurione Ippolito visitava spesso i suoi carcerati; avendo constatato il fatto prodigioso , colpito dalla serenità e mansuetudine dei prigionieri, e illuminato dalla grazia di Dio, si fece Cristiano ricevendo il battesimo da Lorenzo. In seguito Ippolito, riconosciuto cristiano, fu legato alla coda di cavalli e fatto trascinare per sassi e rovi fino alla morte. Lorenzo fu bruciato vivo sulla graticola, in luogo poco lontano dalla prigione; il suo corpo fu portato al Campo Verano, nelle catacombe di Santa Ciriaca.

La controversa questione del martirio
Il Martirio di san Lorenzo è datato dal martirologio romano il 10 agosto del 258 dopo Cristo. A ricordare questi avvenimenti furono erette a Roma tre chiese: San Lorenzo in Fonte (luogo della prigionia), San Lorenzo in Panisperna (luogo del martirio) e San Lorenzo al Verano (luogo della sua sepoltura). Storicamente però furono circa 30 (delle sette rimaste) le chiese dedicate a San Lorenzo, santo amatissimo e compatrono di Roma.  Secondo la devozione e la pietà popolare San Lorenzo fu bruciato sopra una graticola, la Leggenda Aurea del beato Jacopo da Varazze, ne ha in modo significativo sigillato la pietas popolare con la narrazione dei suoi ultimi momenti. Secondo la moderna storiografia tuttavia in base a studi concernenti l’epoca, viene considerata leggendaria questa tradizione, infatti  L’imperatore Valeriano non ordinò torture, tanto che appare più veritiero ritenere che Lorenzo sia stato decapitato come Sisto II, Cipriano e tanti altri. A suffragare la tradizione della graticola resta nondimeno l’ininterrotta trasmissione ab immemorabili che è come già detto parte ancora prima del grande Sant’Ambrogio che ne riteneva come notizia certa.

Il culto e i patronati
San Lorenzo è patrono di diaconi, cuochi e pompieri. Fin dai primi secoli del cristianesimo, Lorenzo viene generalmente raffigurato come un giovane diacono rivestito della dalmatica, con il ricorrente attributo della graticola o, in tempi più recenti, della borsa del tesoro della Chiesa romana da lui distribuito, secondo i testi agiografici, ai poveri. Gli agiografi sono concordi nel riconoscere in Lorenzo il titolare della necropoli della via Tiburtina a Roma. In particolare insieme a Santo Stefano e San Vincenzo, Lorenzo è per antonomasia modello perfetto del diacono, il servizio alla Chiesa vista come popolo in cammino che nel suo grembo riconosce Cristo presenti in particolare nei poveri e nei sofferenti.

L’affascinante legame con le stelle cadenti
La notte dedicata al martirio di san Lorenzo è legato ormai in modo indissolubile al fenomeno delle stelle cadenti, diverse sono le interpretazioni di questo binomio che nasce per motivi ovviamente estranei alle sue vicende agiografiche sebbene si possa azzardare un interessante legame.  Le «stelle cadenti» rappresentano le lacrime versate dal Santo durante il suo supplizio, lacrime che vagherebbero eternamente nei cieli, e scenderebbero sulla terra solo in questo giorno; oppure, le «stelle cadenti» ricordano i carboni ardenti su cui il Santo, secondo la leggenda, fu martirizzato (su una graticola, il suo emblema). In ogni caso, la tradizione di questa notte ha creato un’atmosfera ricca di speranza: si crede infatti che si possano avverare i desideri di tutti coloro che si soffermino a ricordare il dolore di san Lorenzo, e il rituale più diffuso prevede che a ogni stella cadente si pronunci l’avvenimento auspicato. Celebre la poesia di Giovanni Pascoli, che interpreta la pioggia di stelle cadenti come lacrime celesti, intitolata appunto, dal giorno dedicato al santo, X agosto: «San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l'aria tranquilla / arde e cade, perché si gran pianto / nel concavo cielo sfavilla...».


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